Titolo: Il diario segreto della Contessa
Autore: Patrizia Ferrando
Editore: Litho Commerciale
Collana: Cartoline d’amore
Data di Pubblicazione: Agosto 2014
Pagine: 152
Formato: brossura
Prezzo di copertina: € 15,00
"24 dicembre 1926 - Premiere neige et grand froid.
Il gelo arabescava bianchi motivi sui vetri della finestra. La neve, o il tempo trascorso, ovattavano luci e voci della vigilia, fino a trarne un quadro quasi estraneo, piuttosto sfocato. Teresa, seduta sulla poltrona di velluto liso, col solo conforto della coperta ad avvolgerle le ginocchia, ripeteva fra sé certe
melodiose speranze di vigilie remote.”
Palazzo Tornielli a Molare (AL) |
INTERVISTA ALL'AUTRICE
LMBR:“Il diario segreto della Contessa” è, per tua definizione, un “romanzo non romanzo”. Che cosa significa?
PATRIZA FERRANDO: Poco meno di un anno fa, in maniera che definisco- questa sì!- romanzesca- trovai, da un antiquario, il diario di una nobildonna, scritto fra il 1885 e il 1926. Lo comprai d’impeto, colpita dai nomi notati subito e dalla possibilità di avvicinarmi a un documento così particolare.
Quando ho iniziato ad accarezzare l’idea di far nascere un libro che raccontasse questa storia di donna, mi sono interrogata molto sul modo in cui narrarla: spero di essere riuscita a entrare almeno un poco in un complesso di sentimenti ed esperienze, cercando di usare empatia più che filtri. Alla fine ho deciso di riportare brevi corsivi con frasi del diario stesso, scrivendo poi i capitoli in terza persona. Per documentarmi e dettagliare meglio scenari e contesto storico, ho utilizzato fonti d’archivio, lettere e giornali d’epoca.
LMBR: Chi era Teresa?
Nobildonna |
Teresa ebbe a sua volta altri cinque bambini, fra cui due gemelli, e attraversò un’epoca di enormi cambiamenti sociali, fra Torino, Genova, e la campagna basso piemontese, dal mondo romantico ma inquieto di fine Ottocento, al conflitto mondiale, al dopoguerra pieno di cambiamenti da cui non si sarebbe più tornati
indietro. All’inizio del diario viaggia in carrozza…alla fine in auto; l’aspetto davvero interessante è però la sua evoluzione come donna, come persona.
indietro. All’inizio del diario viaggia in carrozza…alla fine in auto; l’aspetto davvero interessante è però la sua evoluzione come donna, come persona.
LMBR: Come è nata l’idea di scrivere un libro partendo dal suo diario?
PATRIZA FERRANDO:La mia prima curiosità nel leggere le pagine del diario, scritte in francese secondo l’uso di molti nobili del tempo, ha riguardato i balli, gli abiti, le usanze del tempo perduto che lungo la strada s’intende anche come un matrimonio combinato divenne, solo dopo anni, un amore bello e grande.
sembravano tornare vive nelle parole di una protagonista. Non per niente le prime pagine furono scritte in pieno carnevale! Il desiderio di tradurre correttamente il tutto, e poi tramutarlo in un romanzo in terza persona, invece ha preso forma quando mi sono resa conto di come, nella lettura, si dipanasse il cambiamento di una ragazza sensibile ma piuttosto immatura in una donna affascinante e consapevole di sé.
sembravano tornare vive nelle parole di una protagonista. Non per niente le prime pagine furono scritte in pieno carnevale! Il desiderio di tradurre correttamente il tutto, e poi tramutarlo in un romanzo in terza persona, invece ha preso forma quando mi sono resa conto di come, nella lettura, si dipanasse il cambiamento di una ragazza sensibile ma piuttosto immatura in una donna affascinante e consapevole di sé.
LMBR: Pensi che questo libro possa piacere alle appassionate di romance?
PATRIZA FERRANDO: Spero di sì! In fondo, sebbene non contenga elementi di pura invenzione, e innegabilmente alcune pagine siano permeate di tristezza, “Il diario segreto della contessa” racconta dall’interno una figura che non stonerebbe in un romance storico…e parla d’amore e sentimenti.RINGRAZIAMO PATRIZIA E AUGURIAMO FORTUNA A QUESTO LIBRO CHE SIAMO SICURE AFFASCINERA' MOLTE LETTRICI .
1885, 17 febbraio, Mardi Gras
Ieri sera ho condotto Max al bal d’enfants dal Duca d’Aosta, era
delizioso, tutto vestito di peluche azzurro cielo, e ballava così bene da
suscitare l’ammirazione generale: era il più piccolo e il più grazioso. Quest’anno sono stata a due feste danzanti date da una dama inglese,
che ha offerto splendide serate all’Hotel d’Angleterre.
La frenesia carnevalesca
volteggiava senza posa, con un ritmo da galop, simile a un soffio iridescente.
Poco importava se cumuli di neve ingombravano gli angoli di strade e piazze, o
patine di ghiaccio tramutavano in minaccia gli angoli ombrosi.
I chiassosi baracconi degli spettacoli e dei giochi attiravano una folla ridente, e palazzi e teatri traboccavano di musica e danze, in un susseguirsi di festeggiamenti, messe in scena tra templi di cartapesta e finte belve, accanite gare di cocchi e, naturalmente, balli. Il clima spensierato toccava il popolino quanto l’alta nobiltà. La cameriera personale dava gli ultimi ritocchi al costume della contessa Teresa per la serata conclusiva di quella stagione di maschere, caroselli e inviti, inviti, inviti. La padrona osservava compiaciuta: adorava l’abito da “notte delle stelle cadenti”, blu scuro e disseminato di cristalli e fili argentei, tenuto per scelta meditata come coup de theatre per il martedì grasso. E le piaceva anche la sua cameriera, unica, fra i domestici, a non appartenere al passato, ai giorni in cui la padrona di casa era la prima moglie di Celestino, la bellissima Walburga, il cui charme spesso tornava in mezze frasi, sempre corredate di aggettivi superlativi, e osservazioni ingenerose. La defunta aveva messo al mondo cinque figli. Accomunati, in misura fra loro differente, dalla fragilità di cosa preziosa che era stata della madre, i frutti di quel matrimonio rimanevano figure discoste; presi fra studi, accademie, collegi, eventuali prospettive nuziali, pensarli evocava in Teresa un’eco simile al suono di panno e legno, provocato dai passi di chi si avvicina con ineccepibile e poco confidente rispetto.
I chiassosi baracconi degli spettacoli e dei giochi attiravano una folla ridente, e palazzi e teatri traboccavano di musica e danze, in un susseguirsi di festeggiamenti, messe in scena tra templi di cartapesta e finte belve, accanite gare di cocchi e, naturalmente, balli. Il clima spensierato toccava il popolino quanto l’alta nobiltà. La cameriera personale dava gli ultimi ritocchi al costume della contessa Teresa per la serata conclusiva di quella stagione di maschere, caroselli e inviti, inviti, inviti. La padrona osservava compiaciuta: adorava l’abito da “notte delle stelle cadenti”, blu scuro e disseminato di cristalli e fili argentei, tenuto per scelta meditata come coup de theatre per il martedì grasso. E le piaceva anche la sua cameriera, unica, fra i domestici, a non appartenere al passato, ai giorni in cui la padrona di casa era la prima moglie di Celestino, la bellissima Walburga, il cui charme spesso tornava in mezze frasi, sempre corredate di aggettivi superlativi, e osservazioni ingenerose. La defunta aveva messo al mondo cinque figli. Accomunati, in misura fra loro differente, dalla fragilità di cosa preziosa che era stata della madre, i frutti di quel matrimonio rimanevano figure discoste; presi fra studi, accademie, collegi, eventuali prospettive nuziali, pensarli evocava in Teresa un’eco simile al suono di panno e legno, provocato dai passi di chi si avvicina con ineccepibile e poco confidente rispetto.
I preparativi costituivano una
deliziosa distrazione, senza allontanare la continua, invisibile presenza dei
giovani Tornielli. Alcuni punti serrati fissarono una fascia scintillante alla
spalla della veste: Costanza, unica femmina fra gli eredi di primo letto di
Celestino, era una ragazza assorta, spesso malata, sorrideva di rado. Un velo
impalpabile accompagnava il diadema siderale: Alberto, Vittorio, Aleramo
preparavano con alterni esiti un futuro da militari che i piani paterni
prevedevano con ben poche alternative, a volte ritrosi, a volte scanzonati, mai
inosservati nella loro dorata nitidezza.
I guanti vennero rovesciati, e
cosparsi all’interno di un lieve strato di talco, da poco le gramaglie del
lutto non rabbuiavano il guardaroba: Manfredo, appena poco più che ragazzino,
era già disceso nella tomba, come se la sua levità non avesse retto una gelida
raffica di vita vera.
Ma c’erano i bambini di Teresa.
Massimiliano, Gabriella, Federico. Max, Lina, Fritz, nei nomignoli affettuosi.
Il primogenito, circonfuso d’orgoglio materno, la bambina riservata, e l’ultimo
arrivato, sul quale la mamma segnava osservazioni nel diario. Tormentato dalla
crosta lattea, piagnucoloso, affidato al seno e alle cure di una nutrice forse
non proprio adeguata…
Il buio avvolgeva da ore Torino:
l’ora del ballo si avvicinava. Indossare un abito così complesso comportava una
lunga serie di passaggi, a partire dallo stringere i lacci del corsetto per
concludere col sistemare le stelle di cristalli fra i capelli, passando per la
sistemazione delle sottogonne, l’assestamento dei drappeggi, l’uso intenso del
passanastri. La contessa osservò l’immagine sfolgorante nella specchiera a
psiche, per poi lasciare che a distoglierla fosse il senso dell’enigma che ogni
nuova sera continuava a suscitare in lei.
Scese la scala, attenta a non
guastare l’effetto del costume. Alla festa sarebbe andata con zia e amiche,
posta per età e condizione di donna maritata fra le dame, eppure mai immune
dalla curiosità di una damigella alle prime uscite nel bel mondo.
La sera fredda si riduceva allo
spazio di un sospiro. La lunga passatoia, fiammante sul marmo degli scalini
all’ingresso del palazzo, arrivava fino al punto in cui sostavano le carrozze,
impedendo che le brillanti scarpette delle signore e le lustre calzature
maschili toccassero l’insidioso selciato.
Un giovane, fermo alla base della
scala, lisciò i baffetti fulvi: “ I primi a recarsi alle funzioni penitenziali
troveranno la via imbiancata…magari con qualche nostra impronta ancora fresca”,
e sembrava più rimarcare la propria appartenenza al regno dei piaceri, o la
dissonanza con l’imminente atmosfera del mercoledì d’inizio quaresima,
piuttosto che constantare l’approssimarsi di una nuova spolverata di fiocchi.
Le stelle rilucevano solo sul costume di Teresa: il cielo basso e plumbeo
parlava di neve. L’aria intirizzita sfiorava i visi, subito adombrata dalla
distrazione delle torce accese, dei valletti in polpe, dell’arco di cartone e
velluto che mascherava perfino il portone come un travestimento moresco.
Intorno, la città si allargava come un lago scuro.
“Incantevole! Incantevole!
Davvero incantevole!”. Gli acuti ripetitivi di Cristina, esuberante ex compagna
di collegio di Teresa, sovrastavano a stento il brusio degli invitati. “Supera
di molto le più belle feste dell’anno passato” replicò, svogliata, l’amica, per
poi inseguire con lo sguardo, finchè non sparì nell’ombra, la sagoma cinerina
di una ragazzetto cencioso.
Un gruppo ridanciano di giovani
vestite a festa, forse sartine o modiste dirette a un veglione del teatro,
passò sull’altro lato della strada. Sottobraccio le une alle altre, provavano a
sbirciare la sfilata di nobili e ricchi signori; Teresa notò la loro
spensieratezza, poi il calore dell’atrio la inghiottì come le fauci di un
magico drago, sostituendo il fuoco coi parati porpora, e le zanne coi troppi volti assiepati, i troppi gesti
ripetitivi, i troppi comportamenti stereotipati.
“Ma petite…” “Buonasera, signora
marchesa…” “…posso complimentarmi per l’eleganza della vostra figliola?”
“Carissima! Che splendore di costume…” “Non trovate che le palme dorate siano
di gran effetto?”
Nonostante mantelli ricamati,
copricapo imponenti, guanti e orpelli stravaganti testimoniassero la sfida- o
l’obbligo- della ricerca di un’attesa fantasia, voci e modi riproducevano
infiniti incontri simili. Teresa pensò di non essersene mai accorta come
allora, o di aver fatto sempre parte di quanti agognavano a recitare al meglio
il copione assegnato, inseguendo la precisa esecuzione di un rituale né vero né
falso. Una grande specchiera le rimandò di nuovo la sua immagine, che quasi le
sembrò estranea. Un battimani richiamava la folla di notabili: stavano per
andare i scena i tableaux vivants, grande apertura della festa, intonati
all’esotismo dell’insieme.
L’orchestra, nascosta fra alte
piante, attaccò una musica d’immaginosa cadenza indiana.
Nelle immense cornici, al
crollare dei drappi rosa acceso, giovani e meno giovani fra i più intimi amici
dei marchesi R., anfitrioni della festa- ma, infine, domandò Teresa fra sé, i
presenti alla sequenza di danze, abiti e trovate badavano davvero chi
organizzava un trattenimento o l’altro?-
apparvero in un tripudio di turbanti, gemme e vesti orlate d’oro e
pendagli. Il colpo di scena, immancabile, venne con la visione di una tigre
impagliata, salutata da reazioni emozionate, gridolini, battiti di ventaglio,
stringersi delle signore al braccio dei cavalieri, quasi come se una belva viva
e feroce avesse fatto d’un balzo irruzione nella sala.
Uno scanzonato ufficiale, pro
tempore tramutato in raja, stava sguainando la sciabola, pronto ad affrontare
l’incruento animale, quando Cristina sbuffò frasi a raffica, quasi all’orecchio
di Teresa: “Guarda la povera Maria Adelaide! Ommioddio! Così pallida, trema!
Temo che sverrà, ecco suo marito s’è avveduto! Che sia ancora una volta in
attesa?”. Sul finire, la tonalità aveva assunto coloriture tra il compatimento
e il mistero. Condotta a un sofà, una ventenne minuta, aggrappata al cuscino,
veniva circondata da troppa gente, incalzata di domande e raccomandazioni,
abbracciata da un paio d’imponenti matrone, assilata con profferte di bicchieri
e fazzoletti. Poi, un uomo dai capelli non ancora ingrigiti, distinto nel
portamento, più autorevole che manierato, riportò la calma con un’asserzione
non udibile. Cristina mormorò circa un medico promettente e dai metodi
controversi, ma Teresa notò assai di più come fosse il primo a guardare la
giovane colta da malore negli occhi: una scena diversa, mentre tra i palmizi continuava la fittizia caccia. Le ore seguitarono a scorrere, persi di vista Maria
Adelaide, il marito, il dottore, confusi i conoscenti e i nuovi arrivati, fra
giovanotti che agognavano a sollecitare la presenza dei loro nomi nei carnet
delle bellezze del momento. Comparvero commendatori desiderosi di sedere ai
tavoli della cena, valletti che sostituivano le candele, coppie instancabili
nelle danze, ballerini affannati fin dalla prima quadriglia. L’insinuarsi
dell’alba del Mercoledì delle Ceneri sarebbe potuto avvenire un secolo dopo…
L'AUTRICE
Patrizia Ferrando, è nata a Genova nel 1974 e vive ad Arquata Scrivia.
Giornalista pubblicista, collabora a riviste femminili e blog dedicati a libri e decorazione d’interni, alternando articoli e scrittura narrativa, sempre all’insegna del desiderio di raccontare. Appassionata di storia e di storie, adora inseguire entrambe fra romanzi, arte, cinema e teatro. I suoi luoghi preferiti sono librerie, mercatini, dimore eccentriche e botteghe insolite.
Giornalista pubblicista, collabora a riviste femminili e blog dedicati a libri e decorazione d’interni, alternando articoli e scrittura narrativa, sempre all’insegna del desiderio di raccontare. Appassionata di storia e di storie, adora inseguire entrambe fra romanzi, arte, cinema e teatro. I suoi luoghi preferiti sono librerie, mercatini, dimore eccentriche e botteghe insolite.
VI PIACCIONO I LIBRI COME QUESTO CHE PRENDONO SPUNTO DA UN DIARIO PERSONALE PER INDAGARE ABITUDINI, USI E COSTUMI DI UN MILIEU SOCIALE E DI UN'EPOCA?
Belissimo!!!
RispondiElimina